Dopo pochi giorni che il brand di abbigliamento outdoor Arc’teryx aprì una nuova sede a New York City lo scorso novembre, un uomo che aveva bisogno di riparare una giacca entrò in quel negozio. Originario del Massachusetts, aveva fatto sci alpinismo nel Berkshires con la stessa giacca Arc’teryx per più di 10 anni. “Era completamente rotta”, gli disse Adam Grossman, il manager del negozio. “Gli ho detto che avrei fatto il possibile”.
Il negozio ospitava il primo centro di riparazione Arc’teryx, fornito di due grandi tavoli da lavoro e cassetti pieni di toppe, cerniere e cordure. C’era perfino una pressa a caldo per applicare le toppe GORE-TEX alle giacche, un depiller per rimuovere la lanugine dalle felpe e una macchina che sparava acqua per testare l’impermeabilità delle giacche.
C’era un’altra novità di fronte allo spazio per le riparazioni: una sezione di attrezzature usate, dove tantissimi capi d’abbigliamento Arc’teryx usati, puliti e a volte rimessi a nuovo erano appesi ordinatamente sugli scaffali.
Una giacca Arc’teryx può costare 1.000$, ma questi articoli costavano circa un terzo del loro prezzo. Grossman mostrò al cliente un cappotto usato con un tessuto molto più resistente di quello che aveva, e l’uomo lo acquistò. Il cliente era contentissimo, disse a Grossman.
Per ragioni ambientali, comprava solo di seconda mano.
La riluttanza a comprare una giacca nuova ha senso. Al di là del costo di sostituzione delle attrezzature, l’impronta ambientale dell’industria della moda è pazzesca. Basti pensare che le emissioni di CO2 dalla produzione tessile hanno superato i 2,1 miliardi di tonnellate nel 2018, più delle emissioni di Francia, Germania e Regno Unito sommate. Un’analisi di McKinsey ha mostrato che l’industria della moda dovrebbe dimezzare le emissioni entro il 2030 per allinearsi all’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius. La produzione tessile – compresa la coltivazione del cotone – sfrutta circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, e utilizza pesticidi e prodotti chimici spesso dannosi.
L’impatto devastante dell’industria della moda è aumentato insieme all’ascesa del fast fashion. Rivenditori come H&M, Zara e Shein mettono nel mercato nuovi articoli velocissimamente e li vendono a prezzi abbastanza economici da permettere alle persone di rinnovare in modo continuo il loro guardaroba. McKinsey ha scoperto che la produzione annuale di abbigliamento ha superato i 100 miliardi di capi nel 2014, più del doppio rispetto all’inizio del 2000. I consumatori usano i loro vestiti per la metà del tempo, secondo il rapporto, buttando alcuni capi dopo averli usati appena sette o otto volte.
Entrare nella rivendita, o la vendita specializzata di vestiti usati, ha il potere creare un considerevole beneficio ambientale. “Anche con la spedizione, il trasporto, la pulizia, l’immagazzinamento, un articolo rivenduto ha un’impronta di carbonio che va dal 5 al 15 per cento rispetto alla produzione di un articolo nuovo“, ha detto Nellie Cohen, che ha costruito e diretto il programma di recommerce di Patagonia fino al 2018.
La rivendita è cresciuta tantissimo nell’ultimo decennio, grazie a startup come Poshmark, Depop e ThredUP, che sono mercati online focalizzati sulla moda per abiti di seconda mano. Il mercato della rivendita dell’usato dovrebbe triplicare le sue dimensioni dal 2021 al 2025, raggiungendo i 47 miliardi di dollari.
Fino a poco tempo fa, solo veterani del clima come Eileen Fisher e Patagonia vendevano vestiti usati. Ma negli ultimi due anni, la rivendita è entrata nel mainstream: Levi’s, Madewell e Lululemon hanno tutti negozi online di second-hand. Timberland inizierà a vendere online stivali usati e ricondizionati questa primavera. Ora che i clienti possono acquistare articoli di seconda mano puliti, controllati e garantiti direttamente dai loro brand preferiti, c’è la possibilità che l’acquisto di vestiti usati possa diventare naturale come l’acquisto di nuovi. Se la rivendita gioverà al pianeta dipenderà dal fatto che compensi effettivamente il consumo o lo promuova.
Eileen Fisher è stato il primo grande rivenditore ad avviare un programma di rivendita già nel 2009. Cominciò raccogliendo gli indumenti usati dei dipendenti, rivendendoli ai clienti e donando il ricavato alla fondazione di beneficenza di Eileen Fisher.
Il programma “Renew” è stato così popolare che l’azienda lo ha rapidamente ingrandito. Ci sono due negozi Renew a New York e Seattle, e l’azienda vende vestiti usati anche in alcune delle sue sedi principali. Hanno lanciato un negozio online Renew nel 2017. Il programma include anche una linea chiamata “Not Quite Perfect“, che contiene pezzi con leggere imperfezioni, come il pilling o una piccola trazione, che vengono venduti con uno sconto maggiore.
Vendendo i propri capi di seconda mano, i brand affermano la più grande sfida ambientale del retail: come continuare a produrre profitto senza ricorrere nuove risorse.
Andy Ruben è il CEO di Trove, servizio di backend che gestisce il programma di rivendita di Eileen Fisher, insieme a quelli di Patagonia, Arc’teryx e altri. Trove elabora gli articoli in permuta nella loro struttura di Brisbane, in California. Il loro software e gli algoritmi classificano e valutano gli indumenti, e la loro piattaforma che alimenta i negozi online di seconda mano.
Servizi come Trove stanno accelerando la crescita della rivendita perché senza di loro, la logistica sarebbe troppo pesante per la maggior parte delle aziende. Nel 2020, Trove ha gestito 1 milione di oggetti di seconda mano.
Ruben calcola che per ogni capo d’abbigliamento che un marchio premium ha in vendita in uno dei suoi negozi, esistanto probabilmente 10 capi ugualemente usabili che giacciono mai indossati nell’armadio di qualcuno. Ma se un marchio può riportare quegli articoli nel proprio flusso di vendita al dettaglio, può venderli una seconda volta, o forse più volte.
“Questo è il futuro“, ha detto Ruben. “Perché a Patagonia piacerebbe vendere una giacca cinque volte, non una sola. Giusto? A chi non piacerebbe?”
Per i clienti, il “second hand” permette loro di acquistare marchi aspirazionali, fare acquisti coscienziosi e – proprio come il thrifting tradizionale – trovare oggetti unici. Quando ho visitato il negozio Arc’teryx a New York City, un cappotto blu scintillante da uomo si trovava sullo scaffale anteriore. Era un parka Firebee AR fuori produzione, con guscio in GORE-TEX e isolamento in piuma. “Questo è uno dei nostri pezzi più iconici degli ultimi 10 anni”, ha detto Grossman. La cerniera è stata sostituita con una che era di una tonalità più chiara di blu rispetto all’originale, rendendo il cappotto unico nel suo genere. Molte delle giacche avevano toppe e cerniere spaiate. “Queste vanno a ruba per prime”, ha detto Grossman.
Ruben crede che la leva ambientale più potente della rivendita stia nel “non acquistare dai marchi con meno etica ambientale”. Se la gente può permettersi un articolo usato, durevole e di qualità di un marchio con un’etica ambientale responsabile, non comprerà articoli nuovi e di bassa qualità che sono stati prodotti in modo dannoso e non dureranno.
Se alcune aziende non potessero sfruttare la rivendita perché i loro capi non durano abbastanza per una seconda vita, potrebbero iniziare a produrre capi più durevoli e riparabili. “Penso che questo permetterà ai marchi di creare articoli di qualità superiore, perché non guarderanno solo a vendere quell’articolo una volta sola”, ha detto Amelia Eleiter, CEO di Debrand, un’azienda di logistica per il riciclaggio dei tessuti. “Investiranno nella costruzione di qualcosa in un modo che può essere rinnovato”.
Le iniziative ambientali che fanno guadagnare un’azienda, piuttosto che costarle, alla fine avranno più potere. “La rivendita è l’unico programma di sostenibilità in cui si può andare nel C-suite e dire: ‘Faremo soldi’”, ha detto Cohen, che ora gestisce la sua società di consulenza sulla sostenibilità. “Abbiamo bisogno di più programmi di sostenibilità come questo, perché quando c’è una crisi economica o un marchio ha un anno negativo, il programma non viene tagliato”.
La sua azienda Debrand smista i prodotti a fine vita di Arc’teryx attraverso 17 canali diversi, una combinazione di riciclaggio, donazione mirata e smaltimento responsabile. Il sistema non è perfetto – alcuni dei metodi di riciclaggio sono così sensibili che un singolo pezzo di piuma su un guscio di poliestere altrimenti riciclabile può renderlo troppo contaminato per essere trattato. Tuttavia, il riciclaggio dei tessuti ha fatto molta strada. “Si potrebbe probabilmente riciclare quasi tutto ad un costo”, ha detto Eleiter. “Ma il costo è una parte che deve essere inclusa“.
Se un marchio non investe adeguatamente nel riciclaggio, o non ritira gli articoli che non possono essere rivenduti, la destinazione più probabile per quegli articoli è una discarica all’estero. Gli americani regalano vestiti a un ritmo così rapido che ci sono più “donazioni” di quante possano essere rimesse in circolo negli Stati Uniti. Questo contribuisce all’esportazione di massa dei vestiti scartati nel mondo verso il Sud del mondo. In Ghana, dove i commercianti comprano vestiti a balle per venderli nei mercati, quindici milioni di capi arrivano ogni settimana. I capi che non si vendono in quei mercati finiscono nelle discariche.
Poi c’è la questione se la vendita di vestiti usati riduce effettivamente l’impronta di un’azienda. “Un programma di rivendita veramente sostenibile permette al marchio di produrre meno unità di cose nuove perché vende più unità di usato”, ha detto Cohen. Nessuna azienda di abbigliamento si è impegnata pubblicamente a farlo.
Infine, i crediti del negozio possono essere problematici se incoraggiano i clienti a comprare più cose nuove. I crediti del negozio incentivano i clienti a portare i loro vestiti, il che è cruciale per mantenere una fornitura costante di articoli usati da vendere. Ma non tutti i programmi permettono al cliente di girarsi e usare quel credito per un altro articolo usato. Patagonia, Arc’teryx e Eileen Fisher offrono la possibilità di spendere il credito sia su abiti nuovi che usati.
“Lo scopo del recommerce è quello di evitare che la gente compri vestiti nuovi”, ha detto Marilyn Martinez, un’esperta di economia circolare alla Ellen MacArthur Foundation, “ma se si dà alla gente uno sconto per comprare più roba nuova, si vanifica lo scopo”.
Quindi, per contrastare l’incoscienza ambientale dell’industria della moda, dobbiamo tutti fare come l’uomo del Berkshires, e non comprare mai più un solo articolo nuovo? Forse – ma non è necessariamente realistico. Una fetta significativa dell’economia globale è costruita sulla produzione e la vendita di nuovi vestiti, l’infrastruttura necessaria per un modello di produzione più circolare è molto lontana da dove dovrebbe essere, e la semplice premessa di indossare i vecchi vestiti di qualcun altro è ancora un concetto scomodo per molte persone. Ma mentre questo paradigma comincia a cambiare, quello che possiamo fare è prendere l’abitudine di provare prima l’usato. Quando hai bisogno di un nuovo paio di jeans, dai un’occhiata al negozio di seconda mano di Levi’s prima di passare alla nuova selezione.
La rivendita non può risolvere da sola il problema ambientale della moda. Dovrà essere accoppiato con altri mezzi di ricircolo dei vestiti, tra cui la riparazione, il noleggio e il riciclaggio. I nuovi vestiti dovranno essere fatti con materiali riciclati e rigenerativi, prodotti e trasportati con energia rinnovabile. “Non vedo un mondo in cui la gente non voglia indossare cose nuove”, ha detto Martinez, “ma vedo un mondo in cui le ‘cose nuove’ siano nuove per te, ma non debbano necessariamente provenire da nuove risorse“.
Questo articolo fa parte della guida di Ask Umbra su “Come vestirsi per il pianeta.”
Luciano Lucci co-founder di LUBICS “Abbiamo trovato l’articolo molto interessante e abbiamo pensato di tradurlo in Italiano e riproporlo nel nostro spazio APNEA qui su LUBICS, sperando possa essere un invito a una riflessione su queste importanti tematiche legate all’ambiente e alle risorse.”
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